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Conversazione con Sara Fgaier

a partire da Gli anni (2018)

Alma Mileto

(1) Come hai incontrato Annie Ernaux e cosa ti ha portato a scegliere un suo testo per il tuo film? Sei arrivata a Gli Anni attraverso un più ampio percorso di lettura attraverso la sua opera, o è questo romanzo in sé ad aver ispirato il tuo lavoro?

Non conoscevo Annie Ernaux, non avevo mai letto un suo testo. Tutto è cominciato quando ho deciso di partecipare alla prima edizione di Refraiming Home movies, curato da Karianne Fiorini e Gianmarco Torri, uno dei pochi bandi in Italia costruiti attorno al riuso delle immagini d’archivio (su modello del Premio Zavattini, che esiste già da tempo). Nel caso di Refraiming gli archivi messi a disposizione dei partecipanti al concorso sono il Superottimisti di Torino, il Cinescatti/Lab 80 film di Bergamo e la Cineteca sarda di Cagliari. Io ho scelto quest’ultimo, partendo dunque da un insieme 

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di materiali di matrice regionale (la Cineteca è nata nel 1966, la raccolta di fondi familiari è invece partita circa sette anni fa) per un totale di 9000 bobine digitalizzate. Sono stata alla Cineteca poco più di una settimana, immergendomi nei fondi lì custoditi a partire da un’idea ancora grezza, un sentimento che mi guidava nella ricerca (il bando lascia che il soggetto dell’opera sia completamente libero). Avevo da poco vissuto un lutto doloroso, di un’amica a me molto vicina, e mi sarebbe piaciuto raccontare una vicenda al femminile che assumesse un aspetto fantasmatico (stavo facendo alcune letture sulla figura del fantasma proprio in quel periodo). Alla Cineteca (come accade quasi sempre) non c’erano fondi di donne, ma di immagini in cui viene ritratta la figura femminile sì, ce ne erano tantissime. Sono tornata a casa con moltissimo materiale.

E qui arriva Ernaux. Dopo circa un mese dal mio ritorno, era agosto, mi sono ritrovata tra le mani il suo romanzo, e sin dalla lettura delle prime pagine sono rimasta folgorata dal testo, riconoscendovi da subito un’impronta decisamente familiare, in cui riuscivo a identificarmi con naturalezza. Gli anni è il racconto di «un destino di donna», nelle parole dell’autrice, dal dopoguerra all’età contemporanea. Un testo idealmente connesso all’archivio e all’immagine “in terza persona” che lo caratterizza, quella stessa terza persona sul cui uso l’autrice, partendo nel racconto da descrizioni di fotografie, home movies, tracce ritrovate del passato, è intransigente. Ho deciso di usare il testo come contrappunto vocale del film, ho chiesto i diritti a “l’orma”, la casa editrice che aveva curato la traduzione italiana del romanzo, e da lì sono cominciati due mesi di lavoro intenso. Durante la lavorazione ho avuto contatti con la scrittrice francese solo attraverso delle lettere che ci siamo scritte, purtroppo non l’ho ancora mai incontrata di persona.

(2) Cosa comporta montare le immagini d’archivio parallelamente alla linea orizzontale del testo? Quanto conta la linea della voce nella trasfigurazione di queste immagini in un racconto?

Mentre leggevo il testo di Ernaux vedevo comparire nella mente le immagini pescate alla Cineteca giorni prima, e miracolosamente corrispondevano al mio inconscio di lettrice, all’immaginazione che muovevo tra le pagine. Inizialmente avevo pensato di rigirare le uniche immagini che sentivo “assenti” in rapporto al testo. Poi però mi sono detta che no, quelle che avevo già vi aderivano perfettamente e mi bastavano (ad eccezione di 3 bobine in super8 bianco e nero in cui ho inserito alcune “parti” di me nel film).

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Appena finito di leggere il libro sentivo come un rispetto sacrale per la scrittura, trovavo difficilissimo smembrarlo e sceglierne solo alcuni segmenti. Progressivamente l’ho però metabolizzato e sono riuscita a riconsegnare un oggetto in cui parole e immagini avessero un peso equo. Frase per frase, da undici pagine di scritto sono arrivata ad una sola pagina, e ancora c’era bisogno di tagliare. È stata una scrematura complessa, ho ripreso in gran parte le frasi che avevo sottolineato nel libro mentre lo leggevo, operando quindi una scelta basata sul processo di lettura più che su quello narrativo. È rimasto un ordine “cronologico” solo nel prologo, «tutte le immagini scompariranno…», che ho lasciato come tale anche nel film, talmente funzionava bene. Poi, mentre montavo le immagini, mi sono resa conto che anche quelle parole a cui avevo dovuto rinunciare, che non sarebbero apparse nella forma della voce fuori campo, continuavano ad esistere nelle immagini mute. In qualche modo le immagini erano diventate quelle parole, e io stessa le montavo come se lo fossero: mi si accendeva come una lampadina nel cervello che mi diceva quando e dove tagliare in modo che l’immagine precedente rimanesse in quella successiva, in un flash, come accade tra i versi di una poesia in cui l’ultima parola non può che tendere e proiettarsi su quella che la segue (riprendo qui alcune riflessioni del mio Maestro, Walter Murch, montatore e traduttore, a proposito della relazione tra montaggio e traduzione). Questa è una chiara manifestazione di come un frammento scritto o visivo, estrapolato dal contesto, mantenga intatto il senso complessivo di un’opera, anche nelle parti di quest’ultima che non appaiono direttamente allo spettatore.

 

(3) L’intimità tra voce e immagine, parola e riconfigurazione visiva, è data anche dal fatto che sei tu stessa a recitare le frasi di Ernaux.

Assolutamente. La costruzione del film ha significato un forte isolamento dalla realtà. Sono stata giorni sola, in casa, spostandomi dal tavolo di montaggio posizionato in soggiorno a uno studio di registrazione che mi ero autocreata in camera da letto, tentando di dare vita ad una “capanna insonorizzata” con coperte alle pareti e ante degli armadi aperte in modo da assorbire il suono. Andavo e venivo da una stanza all’altra: tagliavo un’immagine, sceglievo una frase, andavo subito a registrarla.

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Essenziale nella registrazione della mia voce è stato l’aiuto che mi ha offerto Chiara Lagani, attrice e drammaturga teatrale e fondatrice della compagnia Fanny&Alexander. Ci tenevo ad accompagnare le immagini con la mia stessa voce, che però aveva bisogno di “aprirsi”. Chiara mi ha seguito in un training che contemplava la tecnica della cosiddetta “eterodirezione”. Vale a dire: mentre ascoltavo in cuffia il testo letto da lei recitavo a mia volta le stesse parole. Nello stesso momento lavoravo su un piano “di pensiero” (“pensavo” la sua voce) e su uno verbale (dicevo le parole). Questo procedimento fa sì che la propria voce risulti più spontanea perché non permette a chi parla di ascoltarsi, e dunque di riconoscersi e di identificarsi attraverso una connotazione poco fluida e più artificiosa. Mettevo le cuffie e ascoltavo la voce di Chiara anche la notte prima di dormire. Sono riuscita ad ottenere l’effetto voluto dopo sei mesi, quasi il tempo di una gravidanza. Ho partorito la voce giusta come si partorisce una figlia.

 

(4) È interessante che anche la voce giusta sia nata da un incontro tra la tua e un’altra, quasi ripetendo nel sonoro quello sdoppiamento che già avviene a livello visivo (il tuo sguardo su materiali altrui) e a livello testuale (la presa in carico delle parole di Ernaux). Anche il sonoro puro, curato da Riccardo Spagnol, sembra essere guidato da scelte più inconsce che narrative, ancora una volta legate al tuo sguardo intimo sulle immagini.

Il sonoro ha nel film un’importanza radicale. Ci abbiamo lavorato molto con Riccardo, partendo dal grado zero delle immagini mute, che richiedono evidentemente un lavoro di sonorizzazione complesso. Inizialmente ho buttato giù qualche appunto sui suoni che immaginavo adatti per alcune sequenze: suoni che appartengono alla mia infanzia, ai ricordi di bambina, o che associo metaforicamente, senza necessità di spiegazioni razionali, a una storia d’amore, e così via. Questi appunti sono serviti a lui per capire quale direzione prendere in certi casi, sintetizzando le mie impressioni e sensazioni con le sue. Così abbiamo deciso di proseguire con questo metodo. Ho scritto nel corso del tempo una sorta di “parafrasi sonora” del film, un flusso di coscienza in cui lasciavo che la mente vagasse tra memoria e libere associazioni tra immagini e suoni. Questo testo scritto ha chiuso il cerchio del lavoro di Riccardo, è stato terapeutico per entrambi, quasi catartico: da una parte ha permesso a me di oggettivare ciò che di norma è indicibile, dall’altra ha consentito a lui di far propri i miei riferimenti, di immergersi nella profondità del mio inconscio.

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Ci sono poi anche inserti sonori diversi. Il film si apre ad esempio con un canto muto della cantante lirica Cecilia Paoletti sul tema popolare di Mi votu e mi rivotu – più avanti recuperato in un diverso arrangiamento, questa volta tratto da Pena dell’alma di Vinicio Capossela – melodico e sommesso come in una ninna nanna. Un momento musicale, questo come altri successivi (in particolare una lunga sequenza centrale e il finale del film) in grado di concedere allo spettatore uno spazio di pensiero dentro un contrappunto voce-immagine indubbiamente molto “orientante”. La musica permette in questi casi l’apertura di un terreno di movimento per un pubblico chiamato a maneggiare una materia molto densa.

 

(5) Rispetto ad altri tuoi montaggi — penso ad esempio a quelli per i film di Pietro Marcello — ne Gli Anni lavori sull’immagine in maniera più marcata: rimaneggiandola, smembrandola, in un graduale percorso di astrazione simbolica.

Il film si divide in tre parti, tutte con protagonista la figura femminile: l’infanzia/giovinezza che porta al matrimonio; la sensazione di stasi data da una dipendenza dalla figura maschile che non lascia esprimere la donna, dunque la decisione del divorzio; il ritorno alla propria unità individuale, il recupero della libertà originaria di adolescente vissuta con la consapevolezza e l’esperienza della maturità. In breve la costruzione di un’identità, la necessaria dialettica tra il singolo essere umano e l’altro che lo circonda, il solidificarsi di un “io”.

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Dopo quella che possiamo chiamare la “separazione” dal marito, da un “lui che filma”, la mia idea era quella di far vivere anche alla pellicola, dall’interno, questo passaggio da uno stato liquido a uno stato solido. Così ho inserito stralci di pellicola decomposta, incendiata, scarti della cineteca, cartine geografiche in doppia esposizione, alcune fotocopie tratte da una serie intitolata “Phantôme”, in modo che emergesse il carattere artigianale di quei materiali: i graffi, i deterioramenti del tempo.

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A questo si aggiunge qualcosa di ancora più “carnale”. Ho deciso di inserire, attraverso un procedimento di animazione realizzato con la collaborazione di Davide Minotti (coautore del montaggio e curatore degli effetti speciali del film) e Federico Tocchella (regista d’animazione), alcuni “pezzi” di me: le mie mani che danzano in negativo di fronte alla camera, fotocopie delle mie dita, dei miei capelli (ho infilato per ottanta volte la testa nella fotocopiatrice!), alcuni scampoli di tessuto di un velo di mia nonna che conservo. E con lo stesso intento compare ad un certo punto l’animazione di un processo chimico di cristallizzazione, una pietra preziosa che prende forma, a sottolineare quella che è a tutti gli effetti la “mineralizzazione” di un’esistenza.


Più avanti nel film c’è poi una sequenza in cui si vedono le mie mani che poggiano sul tavolo alcuni oggetti a me cari (una palla di vetro, un medaglione, una spilla, un bastoncino di incenso). Un “tavolo anatomico”, mi verrebbe da chiamarlo, per l’oggettività con la quale la camera riprende dall’alto un gesto astratto di deposizione, quasi come si trattasse di oggetti personali da riconsegnare a testimonianza di una vita vissuta. Su queste immagini inizialmente avrei voluto sovrapporre una frase del romanzo in cui Ernaux dice: «Tutto cioÌ€ che ha rifuggito come vergognoso e che ora diventa degno di essere ritrovato, dispiegato alla luce dell'intelligenza. E piuÌ€ la memoria cessa di essere umiliata, piuÌ€ il futuro torna ad essere un campo di azione». Avrebbe ben mostrato il momento di stacco, il farsi consistenza di un’ombra fin lì dispersa nel tutto. Poi ho deciso di passare ad un testo meno “intellettuale”, in cui la donna elenca le «linee guida» della sua nuova vita. Forse, nella sua freddezza, questo testo rappresenta più concretamente un “io” ormai sedimentato, uscito da una fase, disancorato dalla passione ingenua della gioventù.

 

(6) Pensi che l’uso delle immagini di repertorio — in generale e nel caso particolare di questo film — presenti intrinsecamente la pulsione a legare il personale all’impersonale (inteso come l’“altro da sé”), il destino del singolo a quello universale?

C’è sempre un punto che definirei “misterioso” nei filmini di famiglia, ed è quella traccia che suscita in chi li guarda la sensazione di uno scarto tra ciò che viene rappresentato (una famiglia felice, una vacanza, un matrimonio) e una realtà latente, inimmaginabile, nascosta tra le pieghe dell’immagine. In altre parole, un’immagine “mancante”. Spesso, soprattutto quando sono le donne ad essere raccontate, ci si figura il controcampo di un’apparente serenità: si coglie un’inquietudine in un tempo morto della ripresa, uno sguardo diverso dagli altri. In questo modo alcune situazioni raccontate, se pure non perderanno mai la propria consistenza storica, riescono ad elevarsi ad un livello più simbolico, archetipico, anche a partire dal piano emozionale su cui giocano, e parlare così alla collettività e non più soltanto al singolo che le ha filmate.

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Ernaux nel suo romanzo sente il bisogno di fondere la sua storia individuale con quella collettiva, declinando il suo “io” in quelli personali di tante donne diverse, lontane da lei nello spazio e nel tempo. Ecco perché tiene profondamente all’utilizzo della terza persona: il suo “io” vuole e deve trasformarsi in un “lei”. Il mio percorso è stato diverso: sono partita dai fondi di trenta famiglie diverse e dunque da una molteplicità di sguardi a me estranei, per forza di cosa già intrinsecamente collettivi e, in quanto “altri” rispetto alla mia storia, impersonali. L’operazione doveva quindi essere inversa: «disincastrare» dalla pluralità delle donne che appaiono nelle immagini la mia prima persona, che difatti ho deciso di utilizzare (modificando il testo di Ernaux) in quasi tutto il film (fatta eccezione di alcuni passaggi intermedi e dell’ultima parte). Ad un certo punto avevo pensato di allargare il discorso usando anche archivi storici, per rispettare maggiormente quella “terza persona”, ma mi sono resa conto che il lavoro si sarebbe complicato e sarebbe probabilmente diventato il progetto per un lungometraggio.

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In breve, il romanzo racconta il passaggio da un “io” ad un “noi”; il mio film prova ad esprimere l’emersione di un “io” da una molteplicità di soggetti differenti. Questo è visibile anche nell’utilizzo che faccio dei fondi. Piano piano il racconto filmico si concentra su due soli fondi (uno in cui compare una donna più giovane, l’altro che ha come protagonista una donna matura). Fino a che la mia storia sembra chiudersi intorno ad un solo volto, in cui forse ho visto quello di Ernaux (e ho poi scoperto che la donna era stata in effetti una scrittrice) o chissà, il mio. I temi portanti del film sono del resto la vertigine del tempo e la memoria di una vicenda personale più vicina al ricordo inconscio che a quello “attivo”. Il ritrovamento di una nuova condizione d’esistenza, il contatto con il proprio sé e con i sé di epoche passate, fino all’ultimo “incrostamento” della pellicola su due ragazze che per mano ci danno le spalle e si allontanano da noi alla scoperta del mondo.

 

(7) L’autrice scrive che è «da figure vaghe di donne, sole o con i loro figli», da un “noi” collettivo, che solo può emergere a poco a poco un “lei”, e poi un “io”, «immagini di me stessa staccate, disincastrate le une dalle altre come parti di un’unica matrioska». Credi che la figura della donna possa essere un giusto (e più appropriato e funzionale di altri) anello di congiunzione tra l’uno e la collettività? Sta forse proprio nella sua apparente “minorità” la forza del suo racconto e la sua capacità di rivolgersi al “tutto” e non solo alla “parte”?

Forse sì. Le donne nei filmini di famiglia sono iper-rappresentate, insieme ai bambini. Affinché queste immagini si trasfigurino in racconto c’è bisogno però, come dicevo poco fa, dell’intervento di uno sguardo, di un testo (filmico e non) che le guidi verso un diverso orizzonte simbolico. In questo caso la figura femminile, più di quella maschile, può farsi chiave di un riconoscimento, e dunque ponte tra una dimensione collettiva e una dimensione singolare. Come donna io stessa sono stata portata a proiettarmi su quelle estranee custodite dagli archivi e ho inconsciamente scelto donne che mi somigliano. C’è una scena, ad esempio, circa alla fine della prima parte, in cui una bambina scala una roccia per arrivare in cima e guardare il panorama. Qualcuno ha creduto che fosse mia figlia, oppure io da bambina. A volte non ci rendiamo conto di quanto un’operazione come quella di questo film fonda i confini tra il “me” e l’“altro”, producendo potenti allucinazioni proiettive, come in questo caso, anche agli occhi di uno spettatore esterno.

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In questo il found footage è una tecnica unica. L’adrenalina della ricerca tra i repertori, la cura del “taglia e cuci” al montaggio (in questo caso sia su piano visivo che sonoro/testuale), la mescolanza di più registri espressivi. Si riesce a condensare in un minuto di montato uno scavo archeologico senza spazio e senza tempo, che porta con sé la vita reale, di quel momento storico, e al contempo la produzione finzionale della nostra immaginazione, che avvicina gli esseri reali a quelli immaginati, la storia al sogno.

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Come Ernaux osserva «figure vaghe di donne» al supermercato, sedute ai tavolini dei bar, io ho osservato con costanza quelle che mi guardavano dai repertori. E anche io, immergendomi in quella storia tutta femminile sedimentata lentamente nelle azioni quotidiane, nella complessità del vivere, semplicemente, la propria vita, ho ritrovato, per usare le parole della scrittrice, «con una soddisfazione profonda, quasi abbagliante, una sorta di vasta sensazione collettiva».

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To cite this interview, please use this reference: Mileto, Alma (2021) "Conversazione con Sara Fgaier", Gynocine Project, Barbara Zecchi, ed. www.gynocine.com  

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